Il Patto, di Vera Q.

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ilpatto

Cari, care,
finalmente Il Patto è online!
A voi il link, e nel caso, buona lettura.

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Vera Q.

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Mendicanti d’Autunno

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I libri si aprono come le porte, ma non è mai ben chiaro chi sia dei due ad entrare.

 

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L.

Primavera armata

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Il sospetto che ciò che sta capitando sia un complotto del Mondo, è abbastanza chiaro. L’inverno freddo e maledetto che scorticava la pelle e occupava le strade con le sue lingue di neve (costringendo tutti a starsene chiusi in casa) è stato scalzato da una primavera armata. Giornate soleggiate. Tiepide. Aliene. Provocanti. Come ad invitare le persone ad uscire, ad incontrarsi, a fare aperitivi, a salivarsi addosso.
Quante domeniche ci sono state a Gennaio? Il calendario dice 4, ma chi c’è stato sa che sono state almeno una decina, tutte uguali, indistinguibili, quasi da sembrare in effetti solamente quattro. Hanno anche aggiunto un giorno a febbraio, senza che nessuno battesse ciglio.

Tutto nell’Universo ordinava: assembratevi.
E le persone hanno ubbidito, perché il Mondo ci osserva da parecchio tempo.
Il Mondo ci conosce.
La trappola è servita.

Tra quelli che in questo molle inverno passeggiavano tra i boschi, ce n’erano di due categorie. I primi, molti, soffermavano lo sguardo verso il basso. Meravigliati da tutti quei bucaneve e quelle primule che occupavano militarmente il sottobosco. Magari conditi da una farfalla, un’ape, deliziosamente instagrammabili. Una composizione subliminale con un solo imperativo: ammirate, uscite, radunatevi.
Sciocchi.

Perché chi il Mondo lo conosce, avverte immediatamente un suo ordito quando lo incontra. E questa è la seconda categoria di passeggiatori. Quelli che non si lasciano abbindolare dai fiori di una falsa primavera. Ma alzano lo sguardo verso le cime degli alberi, ancora immerse nella buia stagione. Sentinelle spoglie, nere, severe. Con rami acuminati e minacciosi protesi verso di noi. Intenzionati a colpirci come lance, come le saette che sono, stampate nel legno ma cariche di tensione, bramose di passarci da parte a parte. Con odio. E se nessuno se n’è mai accorto, è solo perché si muovono molto lentamente.

Chi conosce il Mondo sa benissimo che è un grande fan di Rambo. “Non ho iniziato io questa guerra, ma sarò io a finirla.”, ripete spesso.

L.

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Rambo the last blood

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Questo Rambo non è più un reduce dal Vietnam, ma un sopravvissuto dalla vita, dal Tempo, che lascia segni sul corpo esattamente come farebbe una guerra con una Nazione.
Non c’è più spazio per le imprese eroiche, per la retorica muscolare, per quello spettro del passato, illusorio e impotente, conosciuto come salvezza. Ogni angolo di questo film è occupato dalla vendetta.
Una furiosa rabbia che prende per mano la violenza e la conduce ovunque ci sia della carne da annientare.

L.

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Strumentalizzare nell’era dei social, o Apologia della Carne

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Non siete che carne.

La politica vi guarda e non vede nient’altro che questo, carne.
I vostri corpi, i vostri errori, i vostri fallimenti, i vostri peccati, i vostri successi, le vostre morti, le vostre colpe, i vostri volti, le vostre tragedie e i trionfi, il vostro amore, e l’odio, la paura, il vostro cuore, ma anche le viscere, e le idee, l’integrità, il senso del dovere, la professionalità, e i vostri cadaveri ancora caldi, e le vostre mani sporche di sangue,

carne
carne
carne

carne da lavorare con i denti e rigettare in bocca ad altra carne, che siete sempre voi. Già masticata e ammorbidita con la bile.

E se un tempo c’era il distacco dei potenti, quella distanza incolmabile tra il popolo e il palazzo fatta di linguaggi incomprensibili, di formalità e burocrazia, di etichette, di prevaricazioni edificate all’ombra delle ideologie, di misteri e fango dello Stato, come vanno le cose adesso che i politici camminano tra voi? Che vi accarezzano i capelli come la falce fa con il grano maturo?
Adesso che le piazze sono piene di questi Re Mida della carne, che trasformano tutto in pasto, in una danza di zanne che arpionano ogni singolo aspetto delle vostre vite per trascinarle in un mattatoio a cielo aperto
non ne avete abbastanza?
Non vi fa schifo far parte di tutto questo?
Non vi fa orrore guardare una vita spezzata e vedere carne?
Non è disumano osservare l’altro, scuoiato di ogni esistenza, e vedere solo carne?
Non è mostruoso reificare ideologie, religioni, sentimenti, buon senso, ricordi, intimità, sesso, gusti, scelte, vita, in un ammasso di carne?

Perché questo fanno, prendono tutto di voi, tutto quello che è vostro, comprese le idee giuste e quelle sbagliate, i fallimenti, la rabbia, la pace, la guerra, la misericordia, le discriminazioni, la luce, il fango, e ne fanno carne.

Persone annegate in mare? Carne.
Omicidio? Carne.
Il colore della vostra pelle? Carne.
La persona che amate? Carne.
La famiglia? Carne.
La malattia? Carne.
L’amore? Carne.
I vostri adorabili animali domestici? Carne.
Il vostro futuro? Carne.
I vostri figli? Carne.
La giustizia? Carne.
L’ultimo selfie su instagram? Carne.
Il vostro silenzio? Carne… carne… carne…

L.

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Il Bar al confine dell’Universo

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N
el posto in cui abito ci sono tre tipi di bar in cui è possibile fare colazione:

1 – le pasticcerie per milionari.

2 – i bar dei tagliagole.

3 – le lande dimenticate da Dio.

In una landa dimenticata da Dio, c’era questa ragazza fuori corso: codini alla Harley Quinn, volto da Iggy Pop, voce da bambina. Se ne stava in un angolo a civettare con un uomo forgiato dal fuoco dei cliché sugli italiani e dal martello dell’arroganza.
Un Alain Delon masticato dal degrado e dalla sciatteria; nove di domenica mattina, vino bianco. Il modo migliore di santificare le feste.
Lui con la voce ci prova, ma con le parole disprezza.
Ora, dovete capire che nelle lande dimenticate da Dio, non c’è la radio, non c’è il cicaleccio degli altri clienti, non ci sono le risate dei bambini. Il bar è silenzioso come un cimitero in ottobre. Quei due erano la radio, erano gli altri clienti, erano le risate dei bambini.
Punzecchiata sul vivo, lei, Harley Quinn/Iggy Pop, alza le mani e dice:
Io sono piena di qualità
– Sono brava
– Sono bella
– Sono frizzante
– Sono intelligente
– Sono divertente
– Sono modesta (questo l’ho aggiunto io)
– Sono ESIBIZIONISTA (ho sempre creduto che questa qualità fosse esigibile solo in un film porno, ma forse è colpa mia e del mio pregiudizio, poiché adoro il mistero e il mistero è spesso l’opposto dell’esibizione)
– Ma soprattutto, sono BUONA, SENSIBILE, HO UN CUORE D’ORO.
A questo punto Alain Degrado si allontana, il suo cellulare strilla ed è la moglie.
Il barista allunga uno sguardo complice alla Harley Quinn/Iggy Pop, ed azzarda un
– ve la intendete voi due, sembrate affiatati –
E lei, Iggy Quinn, risponde
– Ma chi? Alain Degrado? Quello è solo un povero stronzo. –
La bontà me la ricordo diversa ma il cuore d’oro ha sempre funzionato così: è caldo negli occhi ma freddo quando lo stringi tra le mani.

L.

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Nemico

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Quando mio nonno doveva allontanarsi dalla campagna per la notte, andava da mia madre, poco più che ragazzina, e le consegnava il fucile. Al posto di una delicata ghirlanda di fiori, la incoronava con una immensa cartucciera alla Clint Eastwood che le pendeva lungo il corpo. Nelle tasche doveva sempre esserci un coltellino a scatto con la lama seghettata, utile nel caso in cui le cartucce si fossero incastrate nella canna dopo la detonazione.

Dodici anni nel segno di Sarah Connor.

Le regole di ingaggio erano abbastanza semplici:
Tieni sempre spenta la luce. Se senti che rubano gli animali, non fare niente. Ma se qualcuno tocca la porta, spara. Poi aspetta un secondo e spara ancora. Dopodiché ricarica, apri la porta, e spara in tutte le direzioni. Anche se non vedi nessuno, spara.

Era la fine degli anni ’50, e la guerra aveva insegnato in modo indelebile a mio nonno cosa fosse “il nemico”. Quella era la sua lezione sul mondo.

 
Vivere nell’ideologia del nemico ti libera dalle incombenze della ragione, o delle ragioni. Quando hai un nemico, non ti sporcherai mai gli stivali nella zona grigia in cui la tua giustizia diventa un torto, o un interesse si rivela per un sopruso, o la fame per cannibalismo.
Avere un nemico ti libera da ogni responsabilità, poiché solo una cosa ha importanza: abbattere il nemico. La sua morte, la mia vita.
Il nemico è idealizzato tanto quanto l’amore.
É semplice, è primitivo, è un modo di intendere l’Umanità.

La mia lezione sul mondo è diversa, naturalmente. Ma tanti sono ancora lì, convinti di aver combattuto una guerra, convinti di proteggere una fattoria che non esiste, pronti a sparare al primo tocco della porta, e poi sparare ancora, per poi uscire e dopo aver visto che non c’è nessuno,
sparare
sparare
sparare

L.

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Resistenza

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Parlo poco.
In genere con gli sconosciuti non ho argomenti. E se li ho, mi piace lasciarli nella terra umida a concimare il silenzio.
Della socialità possiedo una conoscenza rudimentale: ogni uso mi sembra un abuso, sempre.
Dei miei vicini non so nulla, nemmeno i nomi. La mia casa vista da fuori sembra disabitata, disabitata da me, e questo mi rende fiero.
Ma in occasioni particolari come questa capita di scambiarsi qualche parola tra vicini: l’Uomo nero cammina tra le vie!
Un meticoloso contabile che si aggrappa di casa in casa in cerca di una breccia per entrarvi.
Osserva, memorizza, assale con la prepotente forza della sua organizzazione gli sventurati che si lasciano avvicinare.
Andati, perduti, sconfitti per sempre.

Qualcuno prova a stilare una mappa abborracciata dei suoi spostamenti, illusi.
Quando sento dei passi spezzare i fili d’erba sull’acciottolato del cortile capisco che è il mio turno.

Suonano, ma il campanello è staccato. Le luci spente. Qualcuno bussa, ma non ci sono nomi, non sa chi chiamare. Insiste.
– Sono venuto a benedire la casa… – Grida.
Io non respiro, non mi muovo, non penso… io non esisto.
Non mi avrai, prete… non mi avrai mai.

L.

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La pertinenza del sogno

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La via sulla quale guarda la casa dei miei genitori è un sottile confine nero di asfalto che divide idealmente i ricchi dai diversamente tali. Sulla sponda dove dorme la mia vecchia casa ci sono i cortili, le casette in sasso con i tetti masticati dal tempo, gli appartamenti affollati, i camini incipriati di nero; mentre dall’altra parte, affacciate sulla valle e sulle Alpi, risplendono le ville, i giardini immensi, le decorazioni liberty, la decadenza che fiorisce dall’abbondanza.

Una di queste ville è stata costruita durante il boom economico su di un terreno venduto dalla mia famiglia. Il proprietario fece edificare una casa molto grande (ma poco elegante) con un giardino in stile italiano. Al suo interno, oltre le piante, le colonne e gli archi, vi era un soprannumero di statue.

Il proprietario si suicidò intorno agli anni ’80.

Quello che seguì fu un lento declino. Il graduale e corrosivo lascito della morte. Un seme nero, che con la complicità del tempo ramificò le sue radici nella superficie per farne nutrimento per la tomba.
L’incuria è il giardiniere della polvere.

Molti anni dopo, quando la villa fu venduta e ristrutturata, delle statue non restavano che denti cariati. Qualcuno pensò bene di farle a pezzi e usarne i volti come elementi decorativi della casa. Un abbellimento, diciamo. Anche se l’effetto è piuttosto sinistro. Come di persone fuse nell’abitazione. Spettri intrappolati nel cemento.

La statua, o meglio, le statue, che più ricordo di quando ero bambino, sono loro. Due sorelle in terracotta. Avevano gli occhi chiusi e si tenevano per mano. Erano posizionate sotto una pianta dai rami cascanti, che le accarezzava al primo vociare del vento.
Ora non possono più tenersi per mano, ma dopo trent’anni sono ancora lì che stanno sognando.
Oramai è una cosa che fanno in pochi, sognare. Una pertinenza di alcuni bambini e delle statue.

Il mondo fa così:
promette sogni,
somministra sonno.

L.

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L’inganno della luce

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Le falene sono attratte dalla luce.

Quando ero piccolo me lo ripetevano spesso. Nelle serate estive sentivo tamburellare sui vetri delle finestre una moltitudine di fiocchi di neve grigi e bianchi. Falene.
Era come se la notte allungasse una mano per testare delicatamente con le sue dita il calore del vetro, il fuco della luce.

Era un tocco leggero, ciclico. Lo sciabordio di piccole onde del mare che si frantumano sul bagnasciuga.

Qualche insetto restava aggrappato alla solida trasparenza della finestra per scandagliare l’interno della stanza con imperscrutabili bilie nere. Il tutto durava qualche minuto appena, il tempo di un caffè, di uno scambio di battute. Dopodiché l’oscurità li risucchiava per risputarne altri.

Dopo un po’ che me ne stavo lì a fantasticare su quello spettacolo, di solito mi si avvicinava mio padre, e diceva “Le falene sono attratte dalla luce”.

Così, nel mio immaginario, ad ogni alba vi erano legioni di quelle creature che come tanti Icaro kamikaze volavano verso la luce più grande, più calda e più potente di tutte: il sole.
Milioni di puntini grigi che bucavano il cielo, lasciandosi l’orizzonte alle spalle, decisi a bruciare come fiammiferi guidati da una gravità ossessiva, da un imperativo scritto dalle mani di Dio con l’inchiostro della natura, raggiungere
la luce
la luce
la luce
la luce
la luce
la luce
la luce
la luce
la luce.

Va da sé che non è così che succede ad ogni alba. Le falene non cercano di sfondare l’atmosfera per ricongiungersi col sole. Questo l’ho imparato.

Nella sala ho due finestre, una ad ovest e l’altra ad est. Nelle notti più calde lascio sempre aperta quella ad ovest. Mi piace lo spettacolo del tramonto che incendia le vecchie case che riposano in cerchio attorno al cortile. É profondamente drammatico, e malinconico. La morte del giorno.

Anche se accosto le persiane, di tanto in tanto qualche farfalla notturna riesce ad entrare. Non amo gli insetti, per questo motivo di solito mi costringo a continuare a scrivere, o leggere, e dopo un po’ me ne dimentico, come fanno le persone con i gesti sgarbati degli sconosciuti.

Tempo.

E poi ripasso davanti alla seconda finestra, quella che guarda ad est. Ed ogni volta trovo i resti delle falene.
Morte.
Potrebbero uscire tranquillamente da dove sono entrate, alle loro spalle. Ma rieccola la gravità, l’imperativo a cui è impossibile sfuggire, la trappola del desiderio.

Ostinatamente si ritrovano a sbattere contro il vetro, cercando la salvezza tra le fauci dell’alba, nella fornace del sole, incollate al loro destino. Convinte che andare in direzione della luce significasse vita, quando vita era restare nelle tenebre.

La luce nasconde l’oscurità.

Il suo inganno consiste in questo, mostrare una strada occultando tutte le altre.

Diffido sempre di chi mostra le luce.

L.

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M’ama o non m’amadeus?

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Per quanto sia stata breve, fallimentare e scarsamente segnante, la mia esperienza universitaria mi ha lasciato un piccolo quadernetto nella testa con dentro annotate una serie di regole.

Quella che è riemersa oggi è: IO ODIO MILOS FORMAN.

Sia chiaro, io non odio Milos Forman, ma uno dei miei professori sì. Lo detestava, lo disprezzava con tutto se stesso. Il suo odio era come un piccolo cucciolo incarognito che portava sempre con sé, perfetto da aizzare ad ogni lezione, ad ogni conversazione che includesse Mozart, o il cinema, o la storia della musica. La colpa di Milos era stata quella di girare un film di una certa importanza (Amadeus) sul suo grande mito, Wolfgang Amadeus Mozart.

Il professore non vedeva la pellicola come un semplice dispositivo narrativo, ma come una immonda creatura tenuta insieme da errori storici, imprecisioni, licenze poetiche, stravolgimenti e tanta tanta tanta merda. Amadeus the movie era il male. Un male covato da un diavolo di nome Forman.

Il suo amato Mozart, il suo confidente, il suo compagno di vita, il sole che lo aveva guidato, il giovane folle e geniale che aveva tracciato da un tempo lontano il suo destino, la creatura perfetta che nella sua mente era viva e presente molto più di quanto non fossimo noi, era stata maltrattata e stuprata da una bieca ambizione. Intollerabile.

Tra i libri che dovevamo sapere a memoria, ve ne era uno che includeva tutte le spese dell’ultimo anno di vita di Mozart. Quante camicie aveva comprato e quanto gli erano costate. Un interessantissimo libretto pieno di date e di conti, qualcosa che puoi raccontare al tuo analista per vendicarti del prezzo della seduta.

Se posso essere sincero, Amadeus non mi era affatto dispiaciuto (è una verità che ho tenuto per me, custodita come un bubbone ad una riunione di medici della peste), ma il film che più in assoluto preferisco di Forman è “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, bellissima pellicola tratta da un ancora più splendido libro (che mi sento di consigliare a chiunque).

Ed ora che Forman è morto, non posso che ripensare a quel professore ed al suo odio. Me lo immagino rientrare a casa maltrattato dalla pioggia.
Incredulo.

Gli abiti zuppi. Gli occhi vaghi e scivolosi, incapaci di aggrapparsi alle forme. Ebbri. Lavati dalla gioia.

Il respiro inquieto, rigettato dal suo stomaco già troppo brulicante di felicità. Un milione di farfalle che solo gli innamorati conoscono.

E con il cuore leggero e gravido di speranza come quello di un popolo che ha appena seppellito il proprio spietato dittatore, può finalmente sedersi al pc per scrivere su Twitter

@Amadè56 Milos Forman mi ha sempre fatto cacare!!!

(E questa è la storia di come nascono i post contro l’artista morto fresco di giornata)

L.

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Gli ospiti

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Adoro la primavera perché è l’inizio di quel periodo dell’anno in cui se lascio una finestra aperta dieci minuti, entra Mothra. Certe volte è una falena discreta e poco invasiva, praticamente due orecchie di elefante che delicatamente sbattono le ali spalmando il mobilio contro le pareti.

Altre volte un tenero scorpione che con il suo aculeo triste ti dice “fatti uccidere per favore, oggi non ho ancora avvelenato nessuno”.

Oppure accade come stasera, che rientrando noto distrattamente da sotto il divano qualcosa che lo solleva di mezzo metro, trasformandolo in uno scivolo di un parco acquatico. Un piccolissimo ragnetto partorito da un bufalo, tutto rannicchiato nella sua adorabile fame di sangue. Quasi non si percepiscono le zampette identiche a rami di quercia.
Posso sentire i suoi pensieri, appesi nella stanza come ghirlande a Natale:

IO NON SONO QUI, AVVICINATI!
IO NON SONO QUI, AVVICINATI!
IO NON SONO QUI, AVVICINATI!
IO NON SONO QUI, AVVICINATI!
IO NON SONO QUI, AVVICINATI!

Ora, è chiaro che qualcosa va fatto, che la convivenza tra noi due non è possibile.
Per fortuna ho un sacco di amici che possono ospitarmi.
Ciao ciao, adieu, goodbye, auf Wiedersehen

L.

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